Italia, un paese che ha paura di cambiare. Quando il treno passa non siamo mai in stazione, ma a lamentarci

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L’Italia è una Paese che ha paura di cambiare. Sembriamo condannati al lamento eterno, ed ogni volta che il treno del cambiamento passa e si ferma, noi non siamo in stazione, pronti a salirci, siamo altrove.
Nel 1996, prima della nascita dell’euro, la Lega Nord denunciava il rischio di costruire un’Europa frutto dell’unione a freddo dei diversi Stati, con economie e mercati profondamente diversi. Umberto Bossi avvisava del pericolo che un giorno a comandare fosse un élite di tecnocrati: «ci imporranno la legge finanziaria inviandola via fax» profetizzava. Proprio così è accaduto, con la lettera dell’estate 2011, che l’Europa ha inviato al Governo Italiano.
Proponevamo l’euro a due velocità, il ridisegno dell’Europa sui confini delle nazioni, piuttosto che degli Stati. Inascoltati arrivammo a dichiarare l’indipendenza della Padania, atto forte, coraggioso, forse disperato, nel vano tentativo di salvare le nostre imprese e la nostra gente da un disastro annunciato. Il popolo ebbe paura, non volle cambiare; subimmo l’euro. Consolazione: avremmo poi vinto i mondiali di calcio. Bhe, non siamo contenti?

Nel 2001 si aprì una nuova fase della storia della Lega Nord, accordo elettorale con il centro destra e arrivammo al governo con un programma preciso di riforma costituzionale. Sul prato di Pontida decidemmo di riporre lo spadone, e intraprendere la via del riformismo; dalla secessione alla devolution.
La Lega, seppur debole avendo raccolto solo il 3,94%, dopo cinque anni di lunghe trattative, riuscì ad approvare la riforma, pubblicata il 18 novembre 2005 sulla Gazzetta Ufficiale.
Finalmente, con grave ritardo, l’Italia compiva un passo verso la modernità. Cosa prevedeva la riforma? In sintesi: abolizione del bicameralismo perfetto, con la creazione del Senato Federale, riduzione Consistente del numero dei Parlamentari, 172 in meno. E poi ancora, snellimento nell’iter di approvazione delle leggi, assegnazione di ampi poteri alle Regioni, aumentando autonomia e responsabilità anche nella gestione delle risorse.
Tutto questo era già legge, approvata. La parola passò poi agli elettori, chiamati a confermare la riforma attraverso un referendum; ed ecco di nuovo la paura, il treno passa, la stazione è vuota. Gli Italiani, sempre in prima fila quando c’e da lamentarsi, disertano le urne, lasciando il campo alla parte del paese più politicizzata, che per cieca ideologia affondò tutta la riforma, cancellandola.

Intanto i problemi del paese, ben lontani dall’essere risolti, si inasprivano.
Solo nel 2008 la Lega riesce a tornare al governo, ed ecco la terza occasione per cambiare il Pase; questa volta si chiama “federalismo fiscale”. La maggioranza è politicamente e numericamente forte, l’apprezzamento per l’operato è alto, nonostante la crisi, stravinciamo le elezioni amministrative nel 2010, unico governo europeo in controtendenza.
La riforma corre veloce e spedita, troppo veloce per qualcuno. Nell’estate 2010, ad un passo dal coronamento di una svolta epocale per il paese, finalmente si poneva un primo argine agli sprechi e all’assistenzialismo, ecco la paura che torna. Questa volta ha un nome e cognome: Gianfranco Fini. Il voltagabbana si sfila dalla maggioranza, toglie l’appoggio, chiamato a difendere il meridionalismo nella sua forma più becera, quella del bieco assistenzialismo che tiene sotto scacco le energie di un sud che, al contrario, vuole finalmente svoltare. Tutto il resto è cronaca di contorno: la speculazione, lo spread, Ruby, i processi. Sono le armi buone per fermare il cambiamento. Ancora una volta, il treno passa, la stazione è vuota.

E arriviamo a queste elezioni alle porte. In questi dodici mesi i nemici della Lega hanno colpito duro, mirando a imperdonabili debolezze, presunti scandali, sempre ingigantiti ad arte. L’obiettivo era uccidere, soffocare, annientare, questi cocciuti e testardi soldati del cambiamento. Noi siamo vivi e offriamo un’altra possibilità di cambiamento.
L’abbiamo resa ancora più semplice, più efficace: teniamo il 75% delle nostre tasse, eliminiamo lo spreco alla fonte, tagliando il fiume che lo alimenta.
Questo è il senso del voto dato oggi alla Lega, cambiare, soffocare i parassiti di stato, avere ancora una speranza di sopravvivenza. Ma di quale egoismo ci accusano? Dobbiamo salvare le nostre imprese, la nostra capacità produttiva, o sarà tutto perduto, anche per chi vive sulle nostre spalle. Dobbiamo dare un senso al futuro di migliaia di giovani, o sarà la fine. Per tutti.
Io non ho paura di Grillo, piuttosto ho paura dell’occasione che puo farci perdere. Il Movimento 5 stelle è un piatto gustoso per una paese giustamente affamato di protesta. La risposta a chi si nutre di solo lamento. Vuole eliminare i politici, ma alla fine eleggerà i suoi, promette di eliminare i commercialisti e magari togliere le tasse; e ancora dare uno stipendio a chi non lavora e poi internet gratis per tutti. Come può essere possibile tutto ciò, se non si parla di cambiare l’assetto di uno stato che non fa altro che sprecare?
Certo prenderà un sacco di voti, la gente è arrabbiata, verrà masticato, digerito e poi sputeremo il nocciolo, pronti già a lamentarci per ciò che non è stato e poteva essere. In attesa del prossimo Grillo.
La domanda non è se sia giusto o meno votare Grillo, la domanda è: possiamo ancora permetterci di perdere l’ennesima possibilità di cambiamento?

Il treno passa domenica e lunedì, la stazione è la cabina elettorale, voi ci sarete questa volta? Io si, e voterò per la mia terra, la mia gente, il mio futuro. Voterò Lega Nord.